lunedì 24 settembre 2007

Capita che...

Capita. A volte capita.
Capita che i mass media ci raccontino che la guerra in Iraq sta andando bene: il dittatore è stato mandato a casa (e pure all'altro mondo, servizio completo!), il popolo liberato, la democrazia importata con successo. Gli yankee hanno fatto il loro dovere, insomma.

Poi però capita anche che sette soldati americani, quattro anni dopo l'inizio del conflitto in Iraq, si sentano in dovere di far sapere a tutto il mondo che la verità non è esattamente quella.
L'avrete sentita tutti la storia dell'editoriale firmato dai sette soldati in questione sul New York Times; era il 19 di agosto, radio, tv, internet e quotidiani si riempirono le rispettive bocche con questa storia (qua potete trovare l'editoriale).

E allora capita che per qualche giorno tutti ne parlano, perché fa notizia, fa audience, fa molto immagine, fa molto giornalismo. Fa vendere, insomma, e oltretutto permette a chi ne dà notizia di mettersi in luce, di dire la propria, di fare un po' di comizio.

Però capita anche che non tutti abbiano saputo come è andata a finire la storia. Già perché... nessuno ne ha parlato.

Due dei sette soldati autori dell'articolo sono morti in circostanze giudicate "strane" dalla madre di uno dei due. Che ora chiede di far luce sulla vicenda:

"I want to know all the details of how he died. I want to know the truth. I don't understand how so many people could die in that accident. How could it be so bad?"


Praticamente è capitato che una camionetta militare sia caduta da un cavalcavia, senza essere colpita da fuoco nemico, né tantomeno da fuoco amico. Nessun rappresentante dell'esercito ha fornito spiegazioni ufficiali riguardo alla dinamica dell'incidente.

Ed è anche capitato che un altro militare co-autore dell'editoriale sia stato raggiunto da un colpo di pistola alla testa nei giorni in cui tutti e sette stavano lavorando all'articolo. Nessun altro dettaglio fornito.

Insomma, capita. E non ponetevi domande.

lunedì 10 settembre 2007

Elogio del limbo

Sei anni fa due aerei centravano in pieno le Twin Towers, "qualcosa" sfondava una facciata del Pentagono, "qualcosa" faceva crollare l'edificio WTC 7, "qualcosa" faceva crollare su sé stesse le due Twin Towers e il volo United Airlines 93 "spariva" in Pennsylvania.

Non mi sentirei a posto con la mia coscienza a sostituire ai vari "qualcosa" le parole "aereo", "missile", "incendio", "cariche esplosive" e via dicendo; io ancora non so cos'è successo l'undici settembre di sei anni fa (e, scommetto, nemmeno voi). Posso solo descrivere gli effetti di quel "qualcosa" che è successo e, se ho tempo e voglia, indagare le possibili cause.

Di certo c'è che le vittime dell'undici settembre sono un numero imprecisato maggiore di 3.000 unità: sarebbe disdicevole, infatti, non includere nel computo tutte le persone morte dal 2001 a oggi a causa delle conseguenze indotte dal 9/11 (decidete voi se contare anche tutti i morti delle guerre in Afghanistan e in Iraq, nel caso procuratevi una buona calcolatrice).

Chiunque possieda una mente raziocinante e circa 90 minuti di tempo libero può fare il seguente test: guardare uno di questi documentari

Loose Change
Inganno globale

e poi vedere se insorge qualche ragionevole dubbio.

Che non vuol dire sposare le "teorie complottiste", ma rendersi conto che è impossibile credere in toto alla versione governativa, che presenta un numero tale di imprecisioni da convincere anche lo scettico più scemo. Vuol dire prendersi la responsabilità di stare nel limbo, di non scegliere né si né no, né bianco né nero, né Islam né Democrazia. In attesa di tempi migliori.

P.S: nel frattempo, con tempismo esemplare, Osama Bin Laden si è rifatto sentire. Qui c'è un'interessante teoria riguardante i mutamenti facciali del prode Osama. Ora io mi chiedo due cose:
1) Ma se la cosiddetta "strategia del terrore" è da sempre quella del contropiede, della sorpresa, dell'assenza di certezze, come è possibile che Bin Laden non abbia pensato niente di meglio che sparare nell'etere un paio di video proprio quando tutti si aspettavano che lo facesse?
2) una volta, quando Osama era in stato di grazia, i video li spediva ad Al Jazeera, o alla peggio faceva da sé e li postava su qualche sito internet di origine sospetta. Ora nemmeno riesce a farla in barba alla CIA, che gli rovina la sorpresa con giorni e giorni di anticipo annunciando di essere in possesso di un qualche suo video. Strano, no?
(foto: thnx to fastfocus)

venerdì 7 settembre 2007

Il bello della conversazione

Leggo sul blog di Francesco la sua lettera aperta sulla conversazione.

Leggo e rifletto. Ci penso e ci ripenso, e già questo potrebbe considerarsi un benefico effetto da ascriversi alla conversazione.

Anyway, si dà il caso che ultimamente mi sia trovata coinvolta in una conversazione, nel mondo reale però, e tra i partecipanti figurava proprio l'autore del post sopracitato.
Argomento: l' "undicisettembre" (ormai tale data è uscita dalla storia e si è guadagnata lo status di entità a sé stante) e le teorie complottiste.

Si parla e si riparla, ci si perde nella conversazione toccandone più volte i confini che la separano dal monologo e dalla diatriba. Lambendoli solo, per fortuna.

Chiunque si aspetterebbe che ora la mia conversazione andasse ad analizzare i pareri dei partecipanti, le loro ragioni ed eventualmente le conclusioni cui la suddetta conversazione è approdata. Perché di solito in questo mondo si conversa per approdare a una conclusione, per far tacere l'altro, per far trionfare la propria posizione. La conversazione deve morire, deve dissolversi in una conclusione.

E invece, a mio parere, no. A mio parer il valore della conversazione non è nella sua conclusione, ma nel suo essere, che è proprio quello di causare confronto, riflessione, scambio culturale. Far girare informazione.

Che si manifesti sotto forma di simposio tra amici, o solitario post su un blog personale, o ancora tête-à-tête televisivo tra due sostenitori di diverse cause, o, last but not least, sotto forma di articolo di giornale (che quando è buono, a mio parere, altro non è che lettera aperta che ha lo scopo di far pensare, di causare a sua volta conversazione), sempre conversazione è. Conversazione 2.0, forse, ma tant'è.